Tommies

Tabula Fati Editore

Collana Nuove Scritture - Marzo 2014

 

Introduzione

Prefazione

Recensioni

 

INTRODUZIONE

di Maria Pia Nervegna

Quando ho terminato per la prima volta la lettura dei racconti che mi accingo a presentare, la mia fantasia era satura di immagini provenienti dagli eventi evocati dalla raccolta, mentre i fondali narrativi si intersecavano vorticosamente alle scene radicate saldamente nei miei personali luoghi della memoria. Io, una delle innumerevoli “nipoti della guerra”, non ho vissuto gli eventi bellici che fanno da sfondo alla narrazione, ma ho sempre avuto gli orecchi echeggianti dei racconti familiari, divenuti ormai saghe, riguardanti sfollamenti e resistenza, nonché gli occhi colmi delle tracce che quell'evento ha lasciato sulla terra ortonese e che il tempo, più che cancellare, ha fissato per sempre. Una volta sfollata la mente emotiva dalle grida, dai boati, dal sangue e dalle lacrime della mia gente che è poi la gente di ogni luogo e di ogni epoca storica, mi chiedevo se quella lettura che avevo appena concluso avesse contribuito in qualche modo ad ampliare il mio orizzonte conoscitivo sulla questione, o se l'opera dovesse essere valutata in base alle sue sole prerogative estetiche, cosa che poi mi era stato chiesto di fare. Correvo il rischio di cadere in un'annosa questione, in un dibattito che spesso ancora oggi si risolve spesso in mere dispute verbali: se la realtà è “naturale” e la finzione è “artificiale”, si può capire la natura delle cose attraverso l'artificio della letteratura? Potevano quei racconti effettivamente veicolare la conoscenza storica? Potevo realmente conoscere da essi? Si poteva parlare di “verità”, e se sì, di che tipo?

Il loro genere, quello storico -o neostorico-, proprio per il suo carattere contraddittorio, ossimorico, si presta bene a una riflessione, seppur modesta. Essi contengono personaggi realmente esistiti oppure una mescolanza di personaggi storici o concepiti e strappati al magma informe della pura invenzione. Appartengono a un genere ibrido, tra invenzione e realtà effettuale, e si basano su una specie di patto narrativo implicito, non dichiarato, tra autore e lettore: io, lo scrittore, signore nel mio regno, limiterò la mia libertà inventiva, sottoponendomi agli effetti vincolanti del reale storico. Tu, lettore, in cambio, pur sapendo di non trovarti di fronte a un manuale di storia, non cesserai di chiederti quanta parte di verità ci sia nei fatti narrati, e alla fine ti affiderai alla voce e all'occhio, anche multiplo o variabile, dei miei narratori.

Cosa era successo durante la lettura? Quanto allettante agli inizi era stata per me questa sfida! Sentivo di saperne davvero abbastanza: da una parte, infatti, i racconti erano portatori delle medesime conoscenze che importano ai manuali di storiografia, strategia militare o storia materiale, accennando ai movimenti delle milizie, alle mitragliatrici e ai costumi e ai luoghi effettivamente esistenti; dall'altra, allo stesso tempo, ricalcavano i “miti”, le narrazioni nate e accresciute in fasi successive dalla coscienza anonima e dalla voce collettiva dei miei concittadini, da me bambina assorbite a memoria.

Non avrei imparato nulla di nuovo sui fatti, pensavo.

Invece no. Alla fine qualcosa era cambiato in me, o meglio, si era aggiunto alla mia esperienza. Essi delineavano progressivamente un mondo fittizio, immaginario, non meno attraente e degno di fede – di accordo istintivo – del discorso storico a cui si riferivano.

Mi accorgevo che io non imparavo la storia perché l'autore si impegnava con prove e documenti a dimostrare l'esistenza o la sussistenza di ciò che aveva affermato, ma perché io contemplavo una verità nuova come in uno specchio, in quanto egli mi “mostrava” artisticamente i fatti che io avevo sempre conosciuto, e mi invitava a integrare con la mia immaginazione, senza tuttavia sospendere le relazioni con il mio mondo, quello vero. La condizione emotiva, lo stato d'animo ondeggiante tra terrore e pietà, disperazione e tenerezza, il coinvolgimento intenso a partire dalle vicissitudini dei personaggi delle storie narrate -ero contemporaneamente il piccolo ma vivace Tommà, la sfortunata e sensibile Adele, la madre angosciata nella cantina- avevano influito sui miei giudizi e sulle mie idee, sulla ricostruzione mentale che per decenni avevo operato su spazi, uomini e azioni.

Le domande di senso del Cappellano Ford, la pazienza nostalgica dell'attesa e le parole e gli atteggiamenti di umanità dei soldati canadesi, il coraggio del sottufficiale Pick Ewald, mi spingevano a riflettere sui miei schemi concettuali, invitandomi a completare, correggere e riconsiderare alcune mie convinzioni. La lettura di quelle pagine scritte in uno stile scarno ed essenziale, profondamente aderente alla brutale materialità della guerra, ma anche alla perfetta, naturale innocenza dei personaggi positivi, aveva costituito una sorta di chiave magica di accesso all'autocomprensione, alla quale si può giungere solo riflettendo su noi stessi, sulle nostre credenze e sulla nostra storia, personale e collettiva. Immaginando, modificavo il mio approccio con ciò che era reale: nella finzione letteraria facevo esperienza dello stato di guerra, della fisicità del combattimento, del panico, del terrore, dello sfinimento corporeo e psicologico senza conseguenze. Semplicemente leggendo conoscevo una nuova me stessa, riscrivendo la mia storia e la Storia di tutti.

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